Hanno riaperto le gabbie
- neurosphere547
- 6 dic 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 20 gen
“I matti sono punti di domanda senza frase, migliaia di astronavi che non tornano alla base”
Il termine mostro (Lat. monstrum ‘segno divino, prodigio’, dal tema di monēre ‘avvisare, ammonire') vuol dire tutto, letteralmente tutto, nel bene e nel male. Il primo significato si lega a questi giorni di Halloween, ma alla fine anche uno particolarmente bravo ai videogiochi o a fare divisioni a tre cifre è un mostro.
Possono essere mostri persone o cose, fatti o pensieri, circostanze.
Soprattutto, a seconda del punto di vista, il mostro può essere qualcosa che tutto fa, tranne che male. Spaventa, certo. Ma spaventa chi non ha visto la realtà fino in fondo. Certe realtà, soprattutto.
E’ con queste premesse che il viaggio di oggi affonda le radici nell’oscura realtà dei manicomi italiani fino al 1978, quando Franco Basaglia e Bruno Orsini, con la legge 180 del 13 maggio, ribaltarono la concezione della cura psichiatrica e dei luoghi in cui i malati non avrebbero mai più dovuto essere contenuti, limitati.

E’ dal Cinquecento che prese piede l’idea di costruire strutture apposite per trattare gli affetti da patologie mentali. Frenocomi, Manicomi, Case de’ Matti. Le iniziative furono promosse indifferentemente da enti amministrativi, religiosi o personalità pubbliche. Ma è nel 1904 che c’è una prima regolamentazione della questione tramite l’allora Primo ministro Giovanni Giolitti. Regolamentazione che però, osservando la questione con un occhio clinico e meno sentimentalista, rispecchiava lo stato assolutamente primordiale della scienza psichiatrica, non solo in Italia.
Ricoveri coatti, pazienti rinchiusi, uso disinvolto dell’elettroshock; ma soprattutto, era molto facile confondere devianza e disturbo mentale, ponendo le basi per un controllo sociale senza precedenti: prostitute, sbandati, clochard, anche persone affette da depressione si trovarono le porte dei manicomi spalancate. Per non riaprirsi mai più di nuovo, in moltissimi casi. Perfino i bambini non vennero risparmiati: con un niente anche bambini “troppo vivaci” finivano nelle gabbie dei frenocomi.

Non poteva esserci modo migliore e più veloce per sbarazzarsi di migliaia di persone “indesiderate”: il nascente Stato Fascista colse la palla al balzo e con la nuova riforma del Codice Penale (il famigerato Codice Rocco) fece internare anche oppositori politici, oltre a costituire un casellario criminale specifico per chi finisse negli istituti di igiene mentale.
Dal 1926 al 1941 furono quasi in 96mila, nella popolazione dei manicomi ormai diventati alter ego delle carceri. Una popolazione senza diritto di voto. Solo una delle tante privazioni di intere generazioni -anche dopo la caduta di Mussolini- ridotte a larve umane nel nome del contenimento sociale favorito dall’inettitudine di scienza e politica. Freddo, costrizione a letto, giorni interi senza mai vedere la luce del sole all’esterno, condizioni igieniche precarie in cui le malattie proliferavano con la complicità di sovraffollamenti ormai cronici.
Due anni prima di questa ferale riforma, nasceva nei pressi di Venezia Franco Basaglia. E’ proprio durante il regime che avviene la sua formazione, la sua crescita, la nascita di una scala di valori che porterà a quella che sarà la futura Psichiatria Democratica. Maturità classica nel ’43 al liceo più prestigioso di Venezia, il Foscarini, una gioventù formata su Sartre, Heidegger, il superamento delle concezioni preesistenti scardinate da un concetto chiave: separando la psiche dal corpo si può evitare di considerare i disturbi psichici come fisici, giungendo a una diagnosi più efficace e al contempo umana.

Una concezione anomala, coraggiosa, che non gli risparmia critiche e una serie infinita di bastoni tra le ruote alla sua carriera: il “Filosofo”, come fu sprezzantemente chiamato da alcuni colleghi contrari al suo approccio rivoluzionario, lo spinsero a lasciar perdere l’insegnamento a Milano per entrare nella vita vera, quella del manicomio. Solo sporcandosi le mani puoi cambiare qualcosa, ed ecco che nel 1961 Franco Basaglia dirige il manicomio di Gorizia.
I cambiamenti, tutti i cambiamenti, sono lenti ma inesorabili. Ma in fondo, i 17 anni che ci separano da quel giorno di maggio del 1978 non sono nemmeno tanti.
Da una parte Gorizia diventa un polo all’avanguardia: si ricorre sempre meno alle camicie di forza, si abbattono i muri intrareparto e la casa di cura diventa sempre più un ambiente open-space, si allestiscono laboratori artistici, addirittura si tenta la strada del reinserimento sociale e perfino lavorativo del malato mentale.
Franco Basaglia non fu il solo, come qualunque portavoce di genialità e progresso: un pool di psicologi, psichiatri, scienziati e operatori del settore. Ma soprattutto, l’instancabile e paritaria collaborazione di Franca Ongaro, sua compagna di vita e di lotta. Basaglia non fu solo nemmeno politicamente e ideologicamente: prese sempre più piede la concezione di superare i manicomi-carcere -cosa che nemmeno a Gorizia si compirà del tutto e subito- e il 18 marzo 1968 arriva la legge Mariotti, promossa dal deputato socialista Luigi e definita dalla stampa come una “piccola riforma dell’assistenza psichiatrica”. Tra le tante novità, introduce per la prima volta una riforma strutturale dell’ospedale psichiatrico -con un occhio ai sovraffollamenti- prevedendo dalle due alle cinque unità, ognuna con massimo 125 posti letto.
Lo stesso anno -quello della contestazione studentesca, ricordiamolo-, esce L’Istituzione negata, libro in cui Basaglia racconta al pubblico l’esperienza goriziana che lascerà nel 1970. Non lascerà però la Venezia Giulia, se non per una breve parentesi parmense: nel 1971 lo psichiatra veneziano prende le redini dell’istituto psichiatrico di Trieste. Lì un nuovo incontro dischiuderà all’Italia e al mondo la natura di ciò che Franco Basaglia stesso volle cambiare.

Gli scatti, la vita, l’umanità.
Oggi, con internet a disposizione, abbiamo il mondo nelle nostre mani. Immagini, scritti, racconti, podcast a raccontare il dolore e la crudezza degli istituti di igiene mentale. Ma prima di tutto ciò? Solo la fotografia e il cinema poterono bucare la coltre di impenetrabilità di chi non doveva lasciare che l’orrore (o meglio, l’inadeguatezza) varcassero i confini per entrare nelle nostre case.
Raymond Depardon arriva a Trieste nel 1977, e proprio in quell’anno vince il Premio Pulitzer. Fotografo e documentarista francese nato nel ’42 a Villefranche, al confine col Piemonte, aveva già al suo attivo innumerevoli servizi : segue la guerra d’Algeria tra l’esercito -per cui svolge il servizio militare- e altre zone calde del mondo: Venezuela, Ciad, il Vietnam e il sud-est asiatico negli anni dei vietcong.
“Tornavo spesso nel vecchio ospedale di Trieste, il posto chiamato “manicomio”. Un giorno ho seguito questo gruppo uscendo dalla mensa. Che cosa mi ha colpito dei pazienti: il loro aspetto, i vestiti che indossavano, il modo in cui camminavano?
Sono stato attratto da loro. Mi sono trovato in un vecchio reparto; la porta del reparto si chiuse alle mie spalle, non c’era un’infermiera in vista. Con il rumore e la decrepitudine del luogo, confesso che per un momento ho avuto paura. Ho iniziato a fotografare, molto piano”.
Nonostante Basaglia stesso abbia espressamente invitato Departon a documentare le condizioni dei frenocomi (non solo a Trieste ma anche a Napoli, Arezzo e Torino), il fotografo aveva una certa remore a mostrare il dolore agli occhi del mondo. Ma fu lo stesso professore a spronarlo: “Scatta, altrimenti il mondo non crederà a noi”.
Spaccati di vita. Gente nuda, che gironzola per i cortili, perfino l’iconica foto dell’uomo senza testa: “Agostino Pirella (il direttore dell’ospedale di Collegno, ndR) non sapeva di avere tra i suoi pazienti un caso simile…e dire che ne aveva studiati di casi simili, all’università” . Ben presto Raymond si fonde con l’ambiente e con l’umanità dei pazienti: un giorno fu cercato per ore all’interno di un ospedale psichiatrico, per farsi poi trovare a giocare a carte con altri pazienti.

Nel frattempo, la rivoluzione a cui Franco Basaglia consacrò la sua vita ebbe compimento, quel giorno del 1978. Fu la riscrittura completa del Servizio Sanitario Nazionale a trasformare le sue idee nell’umanità che ancora oggi possiamo toccare con mano (non senza eccezioni, purtroppo).
Il professore ebbe appena il tempo di toccare con mano la sua rivoluzione, prima che un tumore al cervello se lo portasse via in pochi mesi, il 29 agosto 1980.
Il legame tra Raymond Departon e i ragazzi di Franco, tuttavia, proseguì.
“Nell’estate del 1981, tornai a San Clemente, vicino Venezia. L’ospedale stava per chiudere e gli ultimi pazienti vivevano come in una comunità. Palazzo Bolda, a Venezia, servì da centro diurno. Lomenico Casagrande ne era soddisfatto, c’era perfino una scuola per volontari […] E quando chiesi che cosa sarebbe successo, mi risposero che non serviva più far foto. Quella prigione sarebbe diventata un laboratorio chimico”

Credits TPI, Raymond Depardon, collettivo CLAN, Il Post, Vanity Fair Italia
Malacarne. Donne e manicomio nell'Italia fascista
webdoc Matti per sempre, realizzato dalle giornaliste Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala
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